La missione militare delle FFAA italiane in Iraq è realtà da più di un anno. Contestualmente all’invio di materiale bellico ai Peshmerga curdo-iracheni nell’autunno del 2014, dopo che il vulcano jihadista di Raqqa in pochi mesi eruttò e le sue lingue di lava lambirono Falluja, Ramadi, Mosul e Tikrit. Contestualmente alla fornitura di cannoni anticarro Breda Folgore del 1974, venne istituita la missione Prima Parthica (nota la passione parafascista per i nomi delle legioni romane, peccato che la Legio I Parthica fosse uno strumento di controllo imperialistico su tutta la Mesopotamia, anche se composta principalmente da coscritti etnicamente siriaci), condotta quasi esclusivamente dalla Brigata Paracadutisti Folgore, che di quel tipo di arma è dotata. Le finalità della missione sono il training con quel particolare sistema d’arma, l’addestramento basico di fanteria, e l’addestramento in aree con presenza di IED.
Per essere precisi, l’ “Operazione Prima Parthica” comprende l’insieme dei contributi italiani alla Operation Innerent Resolve e alla Coalizione anti-Daesh. Per farsi una idea precisa, basta rimandare direttamente al sito del Ministero della Difesa[1]. I compiti del Contingente Italiano sono: contribuzione con personale qualificato all’interno degli staff dei comandi della Coalizione; attività air-to-air refueling a favore degli assetti della Coalizione; ricognizione e sorveglianza con Tornado e droni Predator; addestramento delle Forze di Sicurezza del Kurdish Regional Government e irachene.
Dal punti di vista delle operazioni aree, fino ad ora il coinvolgimento si è limitato ai voli di ricognizione. Sono stati dislocati due Predator dalla base di Amendola (Foggia), 4 Tornado in modalità ricognizione e sorveglianza (privi di armamento) e un velivolo da rifornimento in volo, tutti presso l’aeroporto di Kuwait City. A detta delle voci ufficiali e dei giornalisti embedded, il contributo dei voli di ricognizione dei Predator e dei Tornado italiani sono fondamentali per scopi di intelligence e per direzionare i raid delle forze aeree che intraprendono misssioni di combattimento.
Ad ottobre si era ventilata una eventuale partecipazione dei Tornado italiani a missioni di combattimento, limitate al solo Iraq. Poco dopo il governo fece un passo indietro, e anche dopo i fatti di Parigi di novembre Renzi ha affermato che “non rincorreremo i bombardamenti altrui”.
In realtà la costante della strategia italiana è modulare il proprio impegno per conquistare “precedenza nell’ordine delle telefonata”, quella che Putin si è conquistato con i raid aerei sulla Siria e la totale blindatura antiaerea dell’area di Latakia, sotto controllo baathista. Sebbene ancora non partecipi ufficialmente a missioni di bombardamento, la nuova agenda dettata da Parigi ha fatto sì che l’Italia ha sottoscritto accordi con l’industria bellica USA per la fornitura di armamenti da Predator, che potrebbero d’ora in poi avere anche funzioni di combattimento. I Predator furono adottati dall’Italia e schierati (inizialmente) ad Amendola (che sarà anche base operativa per gli F-35) come mezzo ausiliare nell’ambito di Mare Nostrum con funzioni di ricognizione sul Mediterraneo, e piazzati via via lì dove era necessario schierarli per i voli di sorveglianza (Trapani-Birgi, adesso usata anche dalla Piaggio-Aerospace per testare nuovi modelli di droni per conto dell’Aeronautica Italiana). La sponda sud del Mediterraneo rimane l’unica area di interesse strategico del capitalismo italico, con le commesse petrolifere dell’ENI e tutto l’eventuale corollario edilizio che l’Italia aveva già ai tempi di Gheddafi e che vuole riconquistare senza essere sorpassato da chi (Francia, Regno Unito) ebbe maggiori riflessi pronti nel gettarsi nell’aiuto all’abbattimento del regime. L’Italia per la sua decennale presenza di primaria importanza ha un assoluto primato nell’ambito dell’intelligence, ed adesso che c’è un accordo di massima tra i due governi libici l’Italia questo bagaglio di informazioni lo farà pesare per acquistare un ruolo di primo piano, forse addirittura di comando, nell’eventuale missione di supporto alle forze unitarie libiche per sottomettere le eventuali sacche di resistenza jihadista. E ovviamente un ruolo di primo piano nelle eventuali commesse della ricostruzione e vantaggio nel rinnovo dei contratti petroliferi.
La Libia ricorre nella notizia che ha brevemente dominato le pagine dei giornali a metà dicembre. La Trevi di Cesena [2], azienda italiana, primaria importanza nell’ingegneria del sottosuolo, con già alcune importanti commesse storiche in Libia, ma anche nelle petrolmonarchie sunnite del Golfo, vince una commessa da 2 miliardi di dollari per mettere in sicurezza la diga di Mosul, 35 km a nord dell’omonima città capoluogo della provincia di Ninive, ed attualmente “capitale” irachena di Daesh. Essa stessa fu conquistata per breve tempo da alcuni miliziani di Daesh che piantarono una bandiera nera tra il cemento, ma i Peshmerga coperti dall’aviazione statunitense ne ripresero immediatamente il controllo. Comunque sia, il genio militare statunitense la ritiene in molto cattive condizioni e “la più pericolosa del mondo”. Già lo Stato Maggiore delle “nostre” FFAA si era messo in moto per rischierare 500 soldati in difesa dei cantieri della Trevi, o prendendoli dalla Folgore già in parte basata ad Erbil oppure inviando uomini della Sassari o della Garibaldi. Peccato che il 21 dicembre il ministro delle Risorse idriche iracheno affermi: “l’ Iraq non ha bisogno di forze straniere per proteggere il suo territorio, i suoi impianti e la gente che ci lavora”. Ergo, la diga è protetta da forze irachene e continuerà ad essere protetta da forze irachene.
Di certo per gli scrupoli di una azienda italiana non si faranno crepare qualche centinaio di soldati italiani quando possono farlo degli iracheni, quindi il governo ha tranquillamente fatto dietrofront. Sono finiti i tempi in cui la massiccia presenza militare italiana era necessaria per assicurare la presenza in primo piano dell’ENI in Iraq e commesse collaterali nella ricostruzione.
Di certo gli alleati della Coalizione non si scomodavano per quella che sarebbe diventata una palese violazione della sovranità nazionale irachena. Sul piatto c’era la neonata “Coalizione islamica” antiterroristica a guida saudita, che dovrebbe fungere da riferimento del consenso sunnita contro Daesh, e una sua partecipazione effettiva alle operazioni invoglierebbe gli USA ad accettare la vendita a prezzi stracciati del petrolio saudita e il braccio di freddo tra Riad e Teheran a seguito dell’esecuzione dell’imam sciita saudita Nimr al-Nimr, forse rappresaglia per l’uccisione del “Re della Ghouta” Zahran Alloush, noto jihadista siriano il cui padre è un pubblico predicatore in Arabia Saudita, e capo dell’ “Esercito dell’Islam”, principale proxy saudita in Siria, in un raid aereo russo. Il tutto in cambio della progressiva “sunnitizzazione” del conflitto che aumenterebbe le probabilità di sganciamento degli USA dal pantano siro-iracheno.
Elimo Ribelle.
[1]http://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/Prima_Parthica/Pagine/default.aspx
[2] http://www.trevispa.com/viewdoc.asp?co_id=87